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Pensare l'immigrazione. Capitalismo e colonialismo.

Aggiornamento: 3 giu 2018


Gli storici Gustav von Schmoller e Henri Pirenne fanno risalire le origini del capitalismo al XIII secolo, alla fine della dinastia dei Tudor in UK, quando la borghesia era alla costante ricerca di accumulazione del profitto: vale a dire quando chi deteneva il capitale prevalse sui produttori, investendo, assumendo ed infine massimizzando la rendita.


L’effetto del capitalismo e successivamente del colonialismo, è stato quello di dividere il mondo in due aree: quella degli sfruttatori e quella sfruttata (Hobsbawm ‘76).


Immanuel Wallerstein, sociologo e africanista, coniò il concetto di sistema-mondo, per determinare la nascita del capitalismo con la formazione dell’economia-mondo nel XVI sec: le navigazioni transoceaniche, le scoperte geografiche e le circumnavigazioni, rese necessarie per trovare nuove rotte, terre e società con cui mercanteggiare, dopo la crisi economica del XIV secolo, crearono infatti quel mondo economico diviso nelle due aree descritte (Wallerstein '78). Su questa divisione del mondo è d’accordo anche Kenneth Pomeranz, storico statunitense, aggiungendo che la prima Rivoluzione industriale europea sarebbe stata difficile senza i prodotti primari del Nuovo Mondo. Le colonie servirono per due necessità: aprire un nuovo mercato e ricercare materie prime (carbone, petrolio, cotone ecc.) (Pomeranz ‘04).


In seguito servirono anche come smaltimento dell’eccedenza di manodopera e di beni: la sovrapproduzione avrebbe portato ad una riduzione dei profitti infatti; si procedette così ad investire capitali nelle stesse colonie (Strangio ‘17).


Gli esempi possono essere le aree tessili britanniche che con le esportazioni nelle colonie, in particolare in India, prosperarono enormemente; non vanno poi dimenticati i vantaggi avuti dalla tratta degli schiavi sulla nostra economia europea, che da lì in avanti ne beneficiammo fino alla fine del '700, quando un politico portoghese, per primo, abolì la tratta e da lì successivamente e a rilento gli altri paesi lo seguirono (Bairoch ‘96).


Senza colonie che assorbivano il mercato e l’aumento demografico tedesco, l’Impero federale di Germania sarebbe esploso e non avrebbe potuto garantire l'imperialismo sociale su cui vennero fondate molte teorie europee dell’epoca (Betts ‘75).


Alcuni economisti ritennero che il colonialismo e la competizione capitalistica per accaparrarsi regioni del mondo precapitalistiche complicarono nettamente le relazioni internazionali, il liberale inglese John Hobson, per esempio, un economista a cavallo del Novecento, un antesignano delle teorie di John Maynard Keynes, ritenne il colonialismo una mossa strategica sbagliata e per giunta dispendiosa: vale a dire che i benefici, a conti fatti, non avrebbero potuto ripagare i costi.


La capacità di spesa e l’utilità del bene determinano la domanda, in base ad essa vi è un'offerta analoga. Ma la produzione è legata anche al costo di produzione (materiali, affitto, spese, salari operai) e quindi la produzione stessa dipende anche dalla distribuzione del reddito: chi compra, quanto e cosa. L’offerta in questo modo viene a regolare la domanda.

La causa dell’eccedenza dei beni, Hobson, la fa dipendere dal surplus di capitali che non venivano reinvestiti dalla classe finanziaria per eccesso di risparmio e per una cattiva distribuzione della ricchezza con le altre classi, impossibilitate a consumare i prodotti stessi che producevano. Se il reddito fosse stato equiparato all'aumento della produzione, sarebbe inevitabilmente cresciuto il consumo (Hobson ‘02). E si sarebbero evitate le tragedie del colonialismo. Le quali conseguenze paghiamo ancora oggi.





Anche l'espansionismo statunitense di metà Ottocento è stato attuato sotto l’espressione, propria di un politico democratico di allora, manifest destiny: concetto per il quale sentirono il diritto e il dovere morale di espandersi. L'America del Nord si comportò come se gli fosse stata affidata una missione: esportare la loro forma di libertà e di democrazia, ovvia e inevitabile, fino ad esercitare un potere di controllo, di difesa e di “polizia internazionale” sugli altri popoli (Strangio ‘17).


Lo scable (spartizione) violento dell’Africa iniziò con la penetrazione, dopo il 1815, nell'entroterra (prima il colonialismo era presente solo nei porti lungo le coste) da parte delle varie Chiese, per processi di evangelizzazione, allo scopo di civilizzare le popolazioni, e da parte degli esploratori, per conto di compagnie private ansiose di nuovi commerci.


La Società delle Nazioni, organizzazione intergovernativa che aveva lo scopo - oltre che di accrescere il benessere della vita degli uomini, prevenendo le guerre, gestendo i rapporti diplomatici e il controllo degli armamenti - anche di gestire la decolonizzazione, dal 1920, fu d'ostacolo all'indipendenza autarchica delle ex colonie: le neo-nazioni vennero come affidate alle ex Madrepatria nei processi di governo e gestione.


La Germania e la Turchia, nazioni sconfitte della Prima Guerra Mondiale, non vennero ritenute in grado di aiutare le colonie, fu così conferito l’incarico alla Gran Bretagna di aiutare l’Iraq, la Palestina, la Transgiordania, il Tanganica e il Camerun orientale; alla Francia andò la responsabilità del Camerun occidentale, del Libano e della Siria; il Belgio si dovette occupare del Ruanda-Burundi, i possedimenti tedeschi del Pacifico andarono all'Australia, le isole Samoa alla Nuova Zelanda e le isole Marianne, Caroline e Marshall al Giappone.


Queste Nazioni continuarono ad essere gestite secondo la convenienza dei Paesi a cui erano state affidate e il depauperamento economico fu inevitabile.

I Paesi colonizzatori vennero solo successivamente condannati per lo sfruttamento: il sistema di monocultura nel frattempo (i cosiddetti cash crops per i quali i contadini erano stati indotti a coltivare esclusivamente prodotti commerciabili all'estero, come cacao, caffè, cotone) indebolì il terreno, in quanto le mono-piantagioni lo impoveriscono di sostanze e non permette una rigenerazione microbiologica, e ridusse gli agricoltori a sudditi della volatilità e dell’alternanza dei mercati di un solo prodotto.


Attuando nelle colonie un sistema politico e promuovendo una mentalità, che preferì la crescita economica immediata, allo sviluppo e all'investimento nel futuro, le Nazioni occidentali hanno reso dipendenti dall'estero i neo-governi e succubi intere nazioni.


Le ex madre patrie così hanno distrutto tutto l’artigianato locale, ostacolato la formazione di una classe politica, intellettuale e imprenditoriale, impedito l'accumulo di capitali e risorse, l'importazione di beni ad un prezzo più basso dei prodotti locali, e infine, hanno indotto processi post-colonizzazione di militarizzazione, per l’assenza di strutture sociali. Guardiamo il caso dell'Afghanistan o l'Iraq per citare quelli più recenti. “Alla sovranità di principio non è seguita un’indipendenza d’azione: le materie prime infatti continuarono ad essere esportate nelle ex madre-patrie e i prodotti europei ad essere comprati dalle ex colonie" (Betts ‘98).


La condizione economica arretrata non ha permesso una reale e forte indipendenza politica. Ha aperto un periodo storico, che dagli storici è chiamato neocolonialismo.


Pier Paolo Piscopo

Ƹ̴Ӂ̴Ʒ



Bibliografia

- Bairoch, 1993, Economia e storia mondiale. Miti e paradossi, Garzanti, Milano


- Betts R.F., 1975, L’alba illusoria. L'imperialismo europeo nell’Ottocento, Il Mulino


- ID, 1998, La decolonizzazione, Il Mulino

- Hobsbawm E.J., 1976, Dal feudalesimo al capitalismo in M. Dobb. Dal feudalesimo al capitalismo, a cura di A. Lepre, Liguori, Napoli


- Hobson J.A., 1902, L’imperialismo, Istituto editoriale internazionale, Milano

- Pommeranz, 2004, La grande divergenza - La Cina, l'Europa e la nascita dell'economia mondiale moderna, Il Mulino


- Strangio D., 2017, Globalizzazione, disuguaglianze, migrazioni, Carocci ed.


- Wallerstein I.M., 1978, Il sistema mondiale dell’economia moderna, il Mulino


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